Gloria ed onori conobbe Michelangelo Merisi da Caravaggio, affetto e protezione dei potenti, ovunque preceduto dalla sua fama; ma spesso affondò, del tutto intenzionalmente, tra i semplici, gli umili, e non gli furono risparmiati la fuga, il terrore, l’ignominia e il disprezzo. La storia, i libri, ci restituiscono una fine del grande pittore lombardo causata dalla malaria, ma leggende assai più seducenti ci regalano l’ipotesi di un suo probabile assassinio ad opera di uno o più inseguitori. E non è ipotesi improbabile, visto che l’artista ebbe una vita movimentata, intensa e senza sosta, la cui fine, seppur legata alla malaria, avvenne in una spiaggia solitaria, dove vaga delirante fino all’ultimo respiro, fino all’ultima misteriosa ed ignota delle sue parole.
In uno spazio, indefinito ed indefinibile, che assomiglia ad una spiaggia, comincia la storia di una fine, una fine che nella visionaria, colta e dinamica scrittura di Ruggero Cappuccio, nella sua rigorosa e appassionante regia, ha il suono di sette parole: Le ultime sette parole di Caravaggio. In un suggestivo luogo-non-luogo, creato ad arte dallo scenografo Nicola Rubertelli, dominato da una massiccia grata coriacea, ad attendere Michelangelo vi sono sette donne, le "femminote", sette erinni, assassine per scelta e vocazione, pronte a vendicare con atti delittuosi i ‘delitti’ subiti, gli oltraggi che la vita non ha risparmiato loro, offese che si sono trasformate in armi ancor più taglienti delle lame che adoperano per ferire. Le sette donne, probabilmente assoldate dai poteri politici e religiosi, attendono, e Caravaggio arriva accompagnato dal suo servo-assistente Tropea, scampato grazie a lui ad una serie di malefatte; arriva, l’artista dannato, farneticando il suo rifiuto del tutto, nel rifiuto delle stelle e della luce, di quella luce che lui è riuscito ad imprigionare nella tela; arriva, accompagnato dai suoni cupi e ritmati creati da Paolo Vivaldi. Le “femminote” assistono, impassibili e plastiche, a discorsi che vanno dal delirio partecipato, che passa per la negazione del sé, alle gag comiche giocate con il servo-buffone, mentre note e luci si accordano alle azioni e ne sottolineano la forza evocativa.
In scena, a vestire i panni del maestro, un impeccabile Claudio di Palma, che dà voce, in un dialetto reinventato ad hoc che fonde napoletano e siciliano, ad un personaggio complesso e contraddittorio, per il quale la propria opera, il proprio segno, è più vivo della vita stessa, il silenzio della tela ha più vita di chi a quella tela ha dato vita. Accanto a di Palma un abile e saltellante Lello Arena nel ruolo di Tropea, e sette attrici - Federica Bognetti, Stella Egitto, Ilenia Maccarone, Giusy Mellace, Alessandra Roca, Marina Sorrenti, Ada Totaro - dal grande temperamento che danno corpo, anima e voci alle sette criminali siculo-calabre.
Teatro Bellini – Napoli, 28 giugno 2009
Teatro